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FO, Dario

Primo di tre figli, nacque il 24 marzo 1926 a Sangiano (Varese). Il padre, Felice, capostazione avventizio e attore amatoriale, a 16 anni espatriato da muratore a Montpellier, oltre che militante socialista, fu in perpetuo trasloco nell’area, la sponda povera del Lago Maggiore, vicino alla frontiera svizzera, da Pino Tronzano a Porto Valtravaglia e a Luino. La madre, Pina Rota, casalinga e a suo tempo camiciaia allorché la famiglia si trasferì a Milano per gli studi dei figli (a Dario fecero seguito Fulvio e Bianca, poi scrittrice per l’infanzia), fu donna di grande estro e fantasia e pubblicò per Einaudi Il paese delle rane (Torino 1978) sulla storia locale.

Fascinosi pure i nonni: il paterno, gigantesco muratore che lo instradò verso l’arte dei mattoni, e l’altro materno, detto Bristìn (seme di peperone), irresistibile venditore ambulante, dalla battuta fulminante, geniale nell’inventare innesti tra frutta e ortaggi, dalla decisa fertilità coniugale con la bella Maria, da cui ebbe nove figli.

Un’infanzia favolosa

Dai ricordi dei primi anni, presenti in Il paese dei Mezaràt (2002; nel dialetto lombardo mezaràt indica mezzi topi, in quanto lavoratori notturni, tra vetrai e pescatori), emerge un Eden ludico e fascinoso, un idillio da arca di Noè che prelude alla sensibilità animalista di spettacoli futuri, incrocio di idiomi diversi, palestra per il futuro grammelot, miscela di vernacoli medievali del Nord e Centro Italia. Un luna park popolato da figli di carabinieri, di contrabbandieri, di clandestini in transito e di anarchici, conviventi tra loro nella condivisione delle prime scoperte del sesso. Dal micromondo della provincia lacustre, Fo ricavò poi materia per l’esordio stralunato (Ma la Tresa ci divide, 1948), dove interpretava un angelo calato dall’alto sul pubblico, curando oltre al copione anche la scenografia.

Scoppiata la seconda guerra mondiale, e verso la fine del conflitto, pur renitente alla leva, si arruolò nel 1944 tra i paracadutisti, presentandosi al comando dell’Artiglieria contraerea di Varese, per evitare la deportazione in Germania e per coprire il padre, responsabile del Comitato di liberazione nazionale (CLN) per l’Alto Verbano. Ben presto, appena gli si prospettò l’opportunità, disertò. Alla fine delle ostilità, completati gli studi a Brera (tra le letture giovanili, Karl Marx e Antonio Gramsci, Bertolt Brecht e Vladimir Majakovskij), si iscrisse alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano, per abbandonare gli studi a pochi esami dalla laurea, demotivato dalla speculazione edilizia, ma travolto dal mondo dello spettacolo, cui si era accostato spinto dalla passione per la scenografia. Nel frattempo mieteva successo con i suoi sproloqui monologanti.

Dalla rivista radiofonica alla commedia leggera

Nell’estate del 1950 incontrò Franco Parenti, attore del Piccolo Teatro, con un suo testo La storia di Caino e Abele, una satira dove un patetico Caino cercava di imitare un fatuo Abele con riccioli d’oro e occhi azzurri fino a impazzirne e a ucciderlo. Grazie a Parenti, eccolo ospitato nel programma radiofonico Chicchirichì. Nel 1951 partecipò alla rivista teatrale Cocoricò. Da qui, poi, nel 1952 un appuntamento settimanale radiofonico per 18 episodi, cioè i monologhi satirici del Poer Nano, basati su celebri personaggi storici o letterari, da Cesare ad Amleto, da Nerone a Sansone e Dalila, rivisitati tramite abbassamento dei generi alti e della versione ufficiale. Con Parenti e Giustino Durano diede vita nel 1953 e nel 1954 a due riviste, Il dito nell’occhio e Sani da legare, entrambe strutturate in un montaggio disarticolato di scenette e sketches, senza un preciso filo conduttore.

Nella prima, articolata in 21 quadri, si raccontava in maniera anacronistica l’intera storia del mondo, sempre sorprendendo con nuovi punti di vista. Semplici calzamaglie nere per gli interpreti consentivano rapidi cambi di scena, con vertiginosi salti di spazio e tempo. Da notare che il disegno luci portava la firma di Giorgio Strehler. Nella seconda, musicata da Fiorenzo Carpi, si snodavano 24 quadri, secondo le ore progressive di una giornata, dedicati a tipologie cittadine, dagli innamorati ai ladri ai giocatori di carte, con fondali che passavano da ospedali a carceri.

Sempre nel 1953 incrociò Jacques Lecoq, formatosi al sodalizio di Jean Dasté genero di Jacques Copeau, e attivo tra il 1949 e il 1951 nella scuola di teatro entro l’Università patavina, maestro di sblocco corporeo e di azioni fisiche. Lecoq, legato pure al mascheraio Amleto Sartori, oltre a coniugare coro greco, maschera e commedia dell’arte, contribuì a Sani da legare (1954) rifinendone gli intermezzi pantomimici e trasformando i difetti fisici del corpo goffo e dinoccolato di Dario, un po’ alla Jacques Tati, in qualità acrobatiche tali da sfidare quasi la forza di gravità. In più lo indirizzò verso l’antinaturalismo e il teatro di situazione, al di fuori di qualsivoglia psicologismo. Da Lecoq assimilò pure un bagaglio espressivo, fisiognomico e sonoro, e forme diverse, anche mute, del riso, mettendo a fuoco la follia teatrale del proprio personaggio. Lo stesso citato grammelot  (dal verbo grommeler nel senso di borbottare), superfetazione del pastiche plurilinguistico del buffone e della maschera della commedia dell’arte, in realtà nacque da esercizi vocali che il maestro impartiva durante le prove.

In uno spettacolo estivo del 1951, Sette giorni a Milano, all’Odeon meneghino, Fo conobbe Franca Rame (nata a Parabiago, Milano, il 18 luglio 1929), dalla prorompente e radiosa bellezza, discendente da un’antica famiglia di teatranti di origini secentesche, impegnata nella compagnia Nava-Parenti per piccoli ruoli e destinata a divenire stella del cinema senza l’incontro umano e artistico con Dario. La sposò il 24 giugno 1954, e il 31 marzo 1955 nacque il loro unico figlio Jacopo. Oltre che sua partner sul palco, la Rame divenne appassionata editor, in quanto curatrice della pubblicazione dei copioni, nella carriera di Fo.

Jacopo firmò, a sua volta, il pamphlet Lo Zen e l’arte di scopare (1993), da cui la madre lo aiutò a trarre il fortunato Sesso? Grazie, tanto per gradire (1994), farneticante e scherzosa (ma non tanto) contro-didattica dell’eros a scardinare le inibizioni del pubblico. Nel 1956 i due presero parte al film Lo svitato di Carlo Lizzani, e al cinema Dario non mancò in seguito di collaborare come sceneggiatore, dopo essersi trasferito per qualche anno a Roma, in via Nomentana (v., ad esempio, nel 1957 Souvenir d’Italie e Nata di marzo di Antonio Pietrangeli).

Se ancora nel 1989 Fo si trovò a recitare la parte di un bizzarro vecchio professore nello stralunato Musica per vecchi animali di Stefano Benni, con la moglie formò tuttavia, ben presto, una compagnia con i nomi in ditta: l’esordio avvenne nel 1958 a Milano, al teatro Gerolamo, con Comica finale. Quattro farse di Dario Fo (ovvero Quando sarai povero sarai reLa MarcolfaUn morto da vendere e I tre bravi), in cui riutilizzò zibaldoni ottocenteschi, repertorio della famiglia dei suoceri, e dove provvedeva anche alla dipintura degli scenari. Lo stesso anno, Ladri, manichini e donne nude, quattro farse in due atti (ossia L`uomo nudo e l`uomo in frackI cadaveri si spediscono, le donne di spoglianoGli imbianchini non hanno ricordiNon tutti i ladri vengono per nuocere), con musiche di Fiorenzo Carpi, la farsa musicale L’uomo nudo e l’uomo in frac, la farsa per clown Gli imbianchini non hanno ricordi e la farsa gialla I cadaveri si spediscono, le donne si spogliano. I titoli trasudavano leggerezza onirica, grazie a provocazioni funamboliche contro il buon senso e la logica, mentre i puntuali riferimenti sottotitolati vennero aggiunti nella prima edizione cartacea nel 1962. I debutti successivi delle commedie leggere avvennero di solito a settembre, all’Odeon milanese, in apertura di stagione. Nel 1959, Gli arcangeli non giocano a flipper, in tre atti e dalla struttura più unitaria rispetto alle prove precedenti: in questo trattamento da un racconto di Augusto Frassineti, e primo dei grandi successi anche all’estero, Fo aveva buon gioco nello sdoppiamento in più caratterizzazioni, sua predilezione di autore e di interprete. Nel 1960 fu la volta di Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri, in cui rispuntò la scissione in due ruoli, uno smemorato e un ardito di guerra (il padre lo era stato nella Grande Guerra), e con ben 15 canzoni, alla maniera di Brecht-Weill, e situazioni rocambolesche e paradossi come lo sciopero dei ladri. L’anno successivo Chi ruba un piede è fortunato in amore con Apollo e Dafne nei panni contemporanei di un tassista e della moglie di un costruttore edile. Ma il nonsense sempre più conviveva con feroci aggressioni al sistema Italia, tra imprenditori cinici e politici corrotti e corruttori, se nella topica del mondo alla rovescia, cantato dal coro di medici e infermieri nel primo atto, emergevano denunce esplicite.

Nel 1962 Fo e la Rame ebbero una parentesi televisiva, dopo una serie di fortunati caroselli, come conduttori in una trasmissione di successo, abbinata alla lotteria di Capodanno, Canzonissima, collaborazione interrotta prima dell’inizio dell’ottava puntata a causa della censura dei loro sketch satirici su temi inusuali e scottanti, dalla mafia agli incidenti sul lavoro. Seguirono minacce di morte e costosi processi con la RAI-Radiotelevisione italiana per inadempienza contrattuale. Ma le commedie degli anni Cinquanta-Sessanta, ben collocate entro un solido circuito commerciale, valorizzavano lazzi di lunga durata, tra cinema muto alla Charlot, circo, pochade, avanguardia futurista, avanspettacolo anni Trenta-Cinquanta, da Erminio Macario a Carlo Dapporto, da Renato Rascel a Totò, insomma nello stile ‘absurdista’ della slapstick comedy, mentre la satira politica prendeva sempre più spazio. Ad esempio in Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), ricostruzione storica ben documentata, nonostante i registri esilaranti, su ufficiali che fanno carriera perseguitando ebrei e arabi in Spagna, o in Settimo: ruba un po’ meno (1964), dove la polizia sparava contro gli operai mentre la Rame impersonava una becchina demenziale che sogna di fare la prostituta. In La colpa è sempre del diavolo (1965), carnevalata medievale, introdusse la soluzione tecnica, spesso riutilizzata, per rendere il diavolo-nano Brancaleone grazie alla compresenza di due attori, uno che usciva da un pulpito dalla cintola in su usando le braccia infilate in un paio di brache quali gambe, mentre l’altro celato dietro il primo gli prestava le proprie braccia. La Signora è da buttare (1967), a Milano, dedicato al delitto Kennedy, tutto ambientato in un ambiente circense, segnò l’uscita dal teatro commerciale. Scandito tra numeri, attrazioni e segni pop del consumismo americano, l’apologo si accentrava sul pupazzo capitalista da cui fuoriuscivano i burattini per mantenerlo in vita. Franca Rame da parte sua volteggiava seducente sul trapezio, ammaestrata dai Colombaioni partecipi alla produzione.

La svolta politica

Il 25 ottobre 1968 Fo accentuò il proprio ruolo di tribuno accusatore, presso la Casa del popolo di Cesena, con Grande Pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e medi, parata documentaria, in sintonia con il Bread and puppet theatre, sull’Italia del secondo dopoguerra, e con la metamorfosi del mostro fascista in quello clericale. Nel frattempo, si scioglieva la compagnia, trasformata in Associazione Nuova Scena, collettivo teatrale indipendente in giro in luoghi alternativi, palazzetti dello sport, sale cinematografiche, camere del lavoro, piazze. Venne utilizzata anche una vecchia fabbrica milanese in disuso, il Capannone in via Colletta 24. Ecco allora, nel 1969, L’operaio conosce 300 parole, il padrone mille. Per questo il padrone è il padrone, e i due atti unici Legami pure che tanto io spacco tutto lo stesso e Il funerale del padrone, in cui non mancarono attacchi alla politica dell’Unione Sovietica (URSS) e al moderatismo del Partito comunista italiano (PCI), da cui in risposta ebbe solo pesanti stroncature. Iniziava così il boicottaggio a opera della dirigenza del Partito, tramite la non concessione degli spazi e l’annullamento di spettacoli.

Il 1° ottobre 1969, al cinema Ariston di Sestri Levante, andò in scena Mistero buffo. Assemblaggio di vari pezzi – e accresciuto via via con progressivi e ulteriori ritocchi, secondo una drammaturgia mobile e volatile –, costituiva un modello esemplare di work in progress. Progettato quale spettacolo di gruppo, il montaggio alla fine si risolse in una ghignante, rumorosissima solitudine, dalla non facile inquadratura di genere al momento della ricezione. Il comico, issato da solo sul palco, ottenne una visibilità epocale, metafora della scena nuova. Da questa fonte provennero, poi, non a caso, i solitari narratori, molto in voga alla fine del secondo millennio, da Marco Paolini ad Ascanio Celestini. Replicato per oltre cinquemila volte, sino al festoso allestimento in piazza San Marco il 29 gennaio 2009 davanti a oltre duecentomila spettatori, Mistero buffo rispuntò, in qualche modo, in Fabulazzo osceno (1982), dopo la regia di L’opera dello sghignazzo (adattamento da The Beggar’s Opera di John Gay, 1980) che sancì il rientro nel teatro istituzionale. Sciolta Nuova Scena dopo la rottura traumatica con i circoli riformisti dell’Associazione ricreativa culturale italiana (ARCI) e con il PCI (nel 1969 la Rame riconsegnò la tessera presa due anni prima), Fo diede vita al Collettivo La Comune, con cui mise in scena Vorrei morire anche stasera se dovessi pensare che non è servito a niente (1970), sulla Resistenza italiana e palestinese, in un amalgama proseguito poi in Fedayn (1972) per raccogliere fondi e medicinali per quella causa. Nel dicembre del 1970 Morte accidentale di un anarchico, scritto e allestito a ridosso dei tragici eventi Pinelli-Valpreda, trionfò dappertutto nel mondo, specie in Inghilterra, dove si contarono ben sei versioni in pochi anni, a partire da quella di Gavin Richards nel 1979. Seguirono Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone? (1971), sulle lotte operaie 1911-22, Ordine per DIO.OOO.OOO.OOO! (1972) e Pum, pum! Chi è? La polizia! (1972), sugli attentati ai treni e nelle stazioni, nonché Guerra di popolo in Cile (1973), in cui si mimava il colpo di Stato dentro il teatro, con la richiesta di documenti da parte di una finta polizia e la simulazione dell’arresto di finti spettatori, che si tenne nella milanese Palazzina liberty: fatiscente ex mercato della verdura, vicina a Porta Vittoria che, risistemata a nuova sede del Collettivo, promosse l’animazione culturale del quartiere, con ottantamila abbonati nel primo anno, ospitando nel 1977 la rassegna di messinscene, tra cui Parliamo di donne premiato dall’Istituto del dramma italiano (IDI), al rientro della coppia sul piccolo schermo dopo ben quindici anni di allontanamento.

Il 9 novembre 1973 Fo venne arrestato a Sassari e trascorse 18 ore in carcere, durante la tournée dello spettacolo sul Cile, per non aver consentito l`accesso in teatro agli agenti di polizia. Poco dopo, Il Fanfani rapito (1975) fu messo in scena in appoggio alla battaglia per la legalizzazione dell’aborto. L’opposizione tra revisionismo e comunismo rivoluzionario, tra traditori delle masse ed eroi del marxismo originario veniva doppiata nella polarità tra registri dissacranti e celebrativi-liturgici. Ma l’assemblearismo e l’organizzazione cooperativistica della compagnia risultavano poco compatibili con il carisma dell’interprete, dall’individualità egolatrica, nonostante l’ideologia della socializzazione, funzionante per drammaturgia e per resa recitativa meglio nei monologhi che non negli spettacoli coreutici, e dove ricorreva a tutte le sue risorse gestuali e sonore. Spesso, gli interventi alla ribalta si limitavano a sceneggiare i dibattiti affrontati sul territorio: vedi l’esproprio nei supermarket in Non si paga! Non si paga! (1974), in cui l’attore assumeva via via maschere diverse, dallo Stordito, operaio iscritto al PCI, all’Arlecchino, eccitato dall’illegalità trasgressiva, a Scaramuccia, simulacro della lotta. E ancora il dibattito sulla droga in La Marjuana della mamma è la più bella (1976), doppiato poi in Il papa e la strega (1990), o quello sull’AIDS nel coevo Zitti! Stiamo precipitando.

Se nel 1979 il gruppo venne sfrattato dalla Palazzina su intervento della Corte di cassazione, l’anno dopo venne istituita la Libera Università di Alcatraz, centro culturale e agriturismo nei pressi di Gubbio, contornato da boschi e fornito di spazi didattici per scrittura e performance. Da notare che nello stesso anno a Fo non venne concesso il visto d’ingresso per gli Stati Uniti dal Dipartimento di Stato americano, poi rilasciato nel 1984 su intervento del presidente Ronald Reagan.

Un giullare allergico al tragico

In un’intervista del 1970 Fo dichiarava che «i giullari erano gli attori del popolo e facevano un teatro-giornale contro la cultura ufficiale, contro i potenti: religiosi o laici» (cfr. Soriani, 2007, p. 353); di qui l’enfasi sul preteso antagonismo dell’istrione medievale nei confronti della classe dominante, sino ai fantasiosi etimi del termine giullare collegato a ciullare, ossia far l’amore. In fondo, l’intero percorso di Fo consiste nel passare da mimo a giullare (v. Pagliarani, in Dario Fo parla di Dario Fo, 1977, p. VII) e poi a giullare impegnato ideologicamente. Occorre pertanto riportare alla luce quanto censurato dalla cultura accademica. Così, uno tra i primi documenti della nostra letteratura, Rosa fresca aulentissima, sarebbe una giullarata, imbevuta di temi erotici e contestativi del potere feudale.

Il 10 dicembre 1997 fu insignito del premio Nobel per la letteratura (già proposto nel 1975), tra vibranti proteste da parte della destra e di alcuni scrittori nostrani che vi aspiravano: la motivazione specificava proprio che «nella tradizione dei giullari medievali, [il giullare] dileggia il potere e restituisce dignità agli oppressi». Da precisare che, nel 1998, Fo devolvette l’intera somma percepita, pari a 1.650.000.000 lire, in favore dei disabili. La formula adottata dagli svedesi funzionava quale sintesi appropriata per Fo che assimilava gli stessi ioculatores lontani ai moderni favellatori del lago, così come all’ascendenza familistica dei Rame scarrozzanti nell’alta Lombardia. Tra il giullare e Fo, un’ulteriore mediazione veniva offerta da Arlecchino: l’attore lo rileggeva esasperandone la violenza bestiale, dato che un supporto consistente era dato dalla fame dello Zanni, còlto nella sua bulimia fantasmagorica e nella memoria ruzantina a cibarsi del proprio corpo, sino al pantagruelico pasto della mosca.

Inaugurato il 18 ottobre 1985 a Venezia, commissionatogli dalla Biennale, tramite Ferruccio Marotti (che nel 1998 gli conferì all’Università La Sapienza di Roma la laurea honoris causa in letteratura), per onorare il quattrocentesimo anniversario della nascita della maschera, lo spettacolo di Hellequin, Harlekin, Arlecchino anticipava sulla scena i nuclei poi sviluppati nel Manuale minimo dell’attore (1987). Assistito da otto maschere, oltre che da Franca, sul volto solo un maquillage, sulla veste foglie disegnate, a ricordare l’uomo selvaticus, eccolo disquisire del servo asessuato e disappetente in Goldoni, contrapposto al suo Arlecchino, picaro disperato il cui unico mezzo per sopravvivere sarebbe la risata, in una falloforia liberatoria.

Nel 1990, in un’intervista a Luigi Allegri, Fo ribadì come la vocazione politica del suo teatro si esprimesse innanzitutto nell’avversione al tragico e nell’elogio della comicità inserita in un orizzonte illuminista, in quanto autorizzerebbe a ridere di qualsiasi valore, Dio compreso! Quanto agli eroi, basterebbe esibirli in mutande, per far cadere ogni  carisma. Di conseguenza, non appena si cimentava con temi drammatici, vedi il caso Moro, virava la materia del sequestro nella farsa Clacson, trombette e pernacchi (scritta con Franca), che debuttò nel 1981, imperniata su quello fantasioso di Agnelli divenuto, dopo incidente e relativa plastica facciale, sosia di un operaio della Fiat.

Franca Rame partner demiurgica

Il pianto durante la recita, Fo lo realizzava allora in una cifra ridicolosa, senza finalità empatetiche con gli spettatori, piuttosto alla maniera brechtiana, nel senso che quando il personaggio piange il pubblico dovrebbe riderne e viceversa. In cambio, la dimensione tragica veniva delegata alla moglie. Tant’è vero che, dalla temperie protestataria sessantottina, l’attrice agguantava la questione femminile, da lei trattata in modo ironicamente dialettico, senza eccessi femministi, e con dialoghi astuti con la platea: da Tutta casa letto e chiesa (1977; primo testo scritto a quattro mani con Fo) che in Argentina, nel 1984, provocò reazioni isteriche nella stampa conservatrice e cattolica, con cortei e lanci di bombe lacrimogene contro i teatri che lo mettevano in scena, a Coppia aperta, quasi spalancata (1983; altro testo firmato dalla coppia), di enorme successo internazionale. Qui, Franca esibiva, come in altri copioni centrati sulla donna, un diario di bordo sulla paura di essere tradita/abbandonata dal marito. In più, l’attrice smorzava gli stereotipi da fatalona svampita, cucitile addosso nella drammaturgia del primo periodo, intingendoli ogni tanto nel pathos dei racconti di partigiane o di madri di sindacalisti eliminati dalla mafia (si veda, in particolare, Io, Ulrike, grido, la mamma del terrorista ucciso nel carcere tedesco, ripresa da Tutta casa letto e chiesa).

Il climax giunse indubbiamente con Lo stupro, mirabile partitura e solo testo esclusivamente suo, scritto due anni dopo la violenza reale subita il 9 marzo 1973 per mano di fascisti collusi con i servizi segreti, e al debutto, nel 1977, in un primo momento fatto passare quale episodio accaduto a una sconosciuta. La vittima raccontava la vicenda in prima persona, declinando la storia al tempo presente, e sembrava riviverne il trauma atroce. Il vuoto sulla scena, riempita da un’unica seggiola, si riverberava nella semplificazione estrema del racconto, così come nella insolita secchezza lessicale. Tra i moventi del crimine, forse il fatto che l’attrice fu coinvolta nella rete di Soccorso rosso, sostegno ai detenuti politici, dal 1969 sino al 1985.

Oltre che nel primato del riso, il contenuto politico si traduceva nel primato della contemporaneità. Spesso, specie nelle debordanti introduzioni e nei dibattiti interminabili che seguivano allo spettacolo, Fo palesava un manicheismo «da intrepido boyscout di estrema sinistra» (Fido, 1995, p. 305). Talvolta, la fretta di una scrittura in perenne mobilitazione non aiutava la sua drammaturgia: da Il Papa e la strega (1989), sul pontefice polacco costretto dai dolori alla schiena a rivedere le sue posizioni sulla droga, a Il diavolo con le zinne (1997), immerso in un Rinascimento fittizio con trasparenti allusioni ad Antonio Di Pietro, in cui la Rame recitava con Giorgio Albertazzi (quest’ultimo fu poi al fianco del marito in una serie televisiva, ovvero Lezioni di storia del teatro trasmesse su RAI 2 nel 2003), o Marino libero! Marino innocente! (1998) dal titolo ironicamente antifrastico, andato in scena a Pisa davanti al carcere dov’era rinchiuso Adriano Sofri.

L’ossessione di lottare con coraggio contro il potere raggiunse il culmine allorché – nel momento in cui Silvio Berlusconi sembrava intoccabile – Fo non esitò a perseguitarlo dapprima con il monologo Il grande bugiardo (2001), poi con la coppia di spettacoli Da tangentopoli all’inarrestabile ascesa di Ubu bas (2002) e Ubu bas va alla guerra (2003), sino ad Anomalo bicefalo (dicembre 2003). Quest’ultimo allestimento divenne oggetto degli insistiti ricorsi del senatore Marcello Dell’Utri, che in un primo momento riuscì a bloccarne l’audio sul canale satellitare di Sky nel gennaio del 2004. Solo Paolo Rossi e Beppe Grillo sfoggiarono un analogo coraggio. E con Grillo il 1° novembre 2005 al Palafiera di Forlì, Fo tenne uno show-conferenza contro l’incineritore voluto dal Comune.

Altro soliloquio ammirevole era stato, nel 1979, Storia della tigre e altre storie, nata durante la tournée della Comune nella Repubblica popolare cinese (1975). Il plot presentava un povero soldatino ferito, a mo’ di novello Filottete immerso nell’epopea della Rivoluzione, salvato dalla bestia selvaggia, assunta poi dal popolo quale emblema della sua lotta contro burocrati e specialisti della politica. Il tutto reso nella fisiologica incarnazione dell’animale, tra roboanti ruggiti, pantagrueliche digestioni, falsetti e grugniti da orchessa.

Nel 1991, altro grande monologo: Johan Padan a la Descoverta de le Americhe, portato poi all’Expo di Siviglia l’anno dopo, con il massacro degli indigeni a opera dei civilizzatori spagnoli, e affabulato da un marinaio truffaldino imbarcatosi con Colombo per sfuggire all’Inquisizione, ennesima allusione a Tangentopoli. Più drastica nelle sue scelte politiche, Franca Rame venne eletta senatrice con Italia dei Valori (IdV) nel 2006, salvo poi dimettersi due anni dopo.

Non solo teatro e congedo

Fin dagli anni delle commedie leggere, non mancarono canzoni, scritte a quattro mani con Fiorenzo Carpi o con Enzo Jannacci, a conferma dell’autentica competenza musicale dell’attore. Non va ad esempio sottaciuta l’importanza di Ci ragiono e canto, al varo a Torino nel 1966 (ripreso poi nel 1969 e nel 1973), teso nella ricerca etnografica sintonizzata sia pure tra contrasti con il Nuovo Canzoniere Italiano diretto da Gianni Bosio che lo accusava di disinvoltura filologica. In tali recital, il lavoro dell’attore era connesso allo sforzo ingrato dello sfruttato, allusivo pure alle grandi manifestazioni di protesta. Sempre più, l’attore si impegnò nella regia musicale, come nel 1978, su committenza di Claudio Abbado, al teatro alla Scala di Milano, per Lhistoire du soldat di Igor Stravinskij, opera da camera trasformata in opera di piazza, coll’inserimento di trentadue mimi, e con la consueta frattura di alto e basso, in questo caso Mefistofele retrocesso ad anonimo diavolo. E, ancora, un Barbiere di Siviglia tumultuoso, andato in scena ad Amsterdam nel 1987 o una delirante Italiana in Algeri al Rossini Opera Festival nel 1994.

Decisivo, in compenso, il rapporto che l’attore intrattenne con la pittura. Il gesto figurativo, subalterno alla scena, a poco a poco divenne in lui prioritario nella gerarchia tra le arti, rispuntando in tarda età, almeno dopo la mostra Il teatro dell’occhio (Milano, 1981). In fondo la sua produzione pittorica, con la presenza in primo piano del corpo, era un’arte all’inizio senza teatro, mentre in seguito, grazie all’attività preponderante sul palco, le sagome nei quadri man mano ne risentirono attraverso l’influenza dei tanti scatenati gesti effettuati sulla scena. Di qui, anche le tante lezioni performative di storia dell’arte negli anni più recenti, a partire dal 1999 in una Brera gremita su Leonardo e il Cenacolo, e poi, per citarne alcune passate anche sul piccolo schermo, su Caravaggio (2003), sul duomo di Modena (2004), su Mantegna e Raffaello (2006), con Franca servizievole suggeritrice sul palco.

Il 31 maggio 2013, in un tripudio di bandiere rosse, eccolo infine algidamente commosso al funerale della moglie (morta il 29 maggio).

Già colpito da ischemia il 17 luglio 1995, con perdita di gran parte della vista, da cui si era poi ripreso miracolosamente con la consueta energia lavorativa, Fo morì a Milano il 13 ottobre 2016.

Il 15 ottobre 2016, sotto la pioggia e sul sagrato davanti al duomo, salutò idealmente la città tanto centrale nella sua vita se nel 2005 aveva accettato di candidarsi a sindaco e se la sua ultima messinscena, Sant’Ambrogio e l’invenzione di Milano, era stata nell’ottobre del 2009 al Piccolo.

Aveva 90 anni, esattamente come il padre Felice, morto nel 1987, e il cui funerale si era incrociato con quello di Piero Chiara. Scambio allora buffo di cortei, con il pubblico accorso per lo scrittore, finito viceversa a seguire il feretro del ferroviere anonimo, ma genitore in compenso di un futuro premio Nobel. Grande attore, Fo, ma allo stesso tempo l’autore teatrale italiano più premiato (assieme alla moglie), più rappresentato in patria e oltre confine, più volte vincitore del Biglietto d’oro dell’Associazione generale italiana dello spettacolo (AGIS) e insignito di numerose onorificenze e lauree ad honorem in giro per il mondo, spesso causa di attacchi feroci, denunce e violenze anche fisiche.

Opere

La prima raccolta di copioni è in Teatro comico di D. F. (La MarcolfaGli imbianchini non hanno ricordiI tre braviNon tutti i ladri vengono per nuocereUn morto da vendereI cadaveri si spediscono e le donne si spoglianoL’uomo nudo e l’uomo in frakCanzoni e ballate), Milano 1962. La prima edizione, a cura di Nuova Scena, tra le tante che seguirono, di Mistero buffo. Giullarata popolare in lingua padana del ‘400, Cremona 1969.

Dal 1966 Einaudi inaugurò la pubblicazione integrale del suo teatro, sino al XIII volume (1998), in cui la Rame – in precedenza presente come curatrice, oppure «con una testimonianza» come nel III volume (1975) – appare come coautrice. In realtà, già nell’VIII volume (1989) la copertina riportava in basso anche il suo nome: Venticinque monologhi per una donna di Dario Fo e Franca. A sua volta il IX (1991) intesta Dario Fo e Franca Rame per Coppia aperta, quasi spalancata (al funerale della moglie, l’attore rivelò come questa commedia fosse integralmente opera dell’attrice). Legate alla militanza della Comune, le edizioni veronesi di Giorgio Bertani, così come, per i tipi di Gabriele Mazzotta, D. Fo – V. Franceschi, Compagni senza censura, I-II, Milano 1970-73. Importante, nei «Millenni» Einaudi, il ponderoso volume Teatro di D. F., a cura di F. Rame, Torino 2000 (con 27 disegni originali dell’attore). Dal 2005, la Panini pubblica le lezioni d’arte, a partire da Caravaggio al tempo di Caravaggio, a cura di Franca Rame, Modena 2005. Nel 2006, per festeggiare i suoi 80 anni, la Fabbri, sempre per cura della Rame, stampa con annesso dvd Tutto il teatro di D. F. e Franca Rame. La Rizzoli ha da ultimo pubblicato la serie delle quattro trasmissioni: G. Albertazzi – D. Fo, La lezione. Storie del teatro in Italia (Milano 2012).